La pervicacia con cui gli innumerevoli consiglieri giuridici del Premier si affannano a ricercare soluzioni a fronte dei processi in corso con imputato lo stesso Berlusconi non sembra davvero conoscere tregua, sosta, né argine alcuno.
Del resto, questa volta, bisogna fare in fretta, considerato che il timing giudiziario – nella circostanza – corre assai veloce e non ci sono salvifiche prescrizioni alle porte: i reati per cui il Presidente del Consiglio è sotto processo (concussione e prostituzione minorile) si estingueranno, infatti, ben oltre il lontano anno 2017.
Ecco allora l’ultimo escamotage degno di nota messo in campo da lorsignori, ossia quello relativo alla sollevazione dinanzi alla Corte costituzionale di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato che coinvolga il Parlamento e/o il Governo, la Procura di Milano ed – a questo punto – pure il G.I.P. Dott.ssa Cristina Di Censo, che ha disposto il giudizio immediato nel c.d. Rubygate.
La tesi del legal brain storm berlusconiano, in poche parole, è la seguente: l’Autorità Giudiziaria (inquirente e requirente – la predetta Procura meneghina – e quella Giudicante – il menzionato G.I.P.), non accogliendo la tesi della Camera dei Deputati – alla quale il Premier appartiene – secondo cui Berlusconi andrebbe giudicato dal c.d. Tribunale dei Ministri, avrebbe leso le prerogative proprie del Parlamento ed, in ultima analisi, anche quelle del medesimo Presidente del Consiglio.
Cosa non funziona in questo ragionamento?
In termini strettamente giuridici quasi tutto, se solo si tiene a mente il disposto dell’art. 37 della Legge n. 87/1953 (recante
“Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale”) a tenore del quale: “Il conflitto tra poteri dello Stato è risoluto dalla Corte costituzionale se insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali. Restano ferme le norme vigenti per le questioni di giurisdizione”.
“Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale”) a tenore del quale: “Il conflitto tra poteri dello Stato è risoluto dalla Corte costituzionale se insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali. Restano ferme le norme vigenti per le questioni di giurisdizione”.
Tale disposizione costituisce, a ben vedere, un vero e proprio invalicabile sbarramento rispetto alla utilizzabilità dello strumento del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato allo scopo di perorare la causa della “ministerialità” dei reati di cui si è detto (ed, in particolare, della concussione).
Infatti:
- La questione relativa al fatto che, nella fattispecie, a giudicare il Presidente del Consiglio, sia il Tribunale Ordinario di Milano oppure il c.d. Tribunale dei Ministri rappresenta una classica questione tutta interna ad un unico potere dello Stato, costituito dal potere giudiziario e non può essere certo decisa per il tramite di una deliberazione parlamentare (che, anzi, appare – questa sì – chiaramente lesiva delle prerogative di cui è titolare un altro potere dello Stato);
- Tale questione, in realtà, è strettamente afferente alla ripartizione della competenza funzionale tra diversi organi giudiziari con ogni conseguenza rispetto alle attribuzioni assegnate in materia alla Corte di Cassazione allo scopo di dirimere siffatta problematica;
- D’altro canto, come è stato affermato a più riprese dalla Corte costituzionale, “la contestazione di errori addebitati ad una pronuncia giurisdizionale non può costituire, di per sé, materia di conflitto costituzionale per il solo fatto che da quegli errori si affermi discendere, come conseguenza o riflesso, la menomazione di una posizione costituzionalmente garantita, ma solo quando sia contestata la riconducibilità della decisione o di statuizioni in essa contenute alla funzione giurisdizionale, o si lamenti il superamento dei limiti – diversi dal generale vincolo del giudice alla legge, anche costituzionale – che essa incontra nell’ordinamento a garanzia di altre attribuzioni costituzionali: diversamente opinando, si verrebbe a trasformare il conflitto costituzionale in un atipico mezzo di gravame avverso le pronunce dei giudici”.
Questo tanto più se si considera che “il giudizio per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato non può essere utilizzato come strumento generale di tutela dei diritti costituzionali, ulteriore rispetto a quelli offerti dal sistema della giurisdizione” (cfr. Corte costituzionale Ord. n. 359/1999).
Come si vede, non c’è certo da stupirsi se fonti anonime interne agli ambienti della Corte costituzionale nei giorni scorsi sembra abbiano fatto trapelare un pensiero diffuso secondo cui – con estrema probabilità – l’eventuale conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato che fosse sollevato in relazione al c.d. caso Ruby andrebbe dritto dritto incontro ad una pronuncia di inammissibilità (vedi link in calce).
Come si dice: uomo avvisato mezzo salvato.
Ma tant’è.
Siamo sicuri che – di fronte all’ennesima bocciatura di un’iniziativa piuttosto ardita (come è quella siffatta) – si griderà, ancora una volta, al complotto delle onnipresenti Toghe Rosse: insomma, un copione più volte già visto e piuttosto usurato.
Chi vivrà vedrà.
Pirata Romano