sabato 18 giugno 2011

Craxi, il PD e la riabilitazione impossibile

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Mi ricordo quando nel 2007 Francesco De Gregori, il cantautore che a torto o a ragione più viene identificato con la Sinistra italiana, lanciò un appello a riconsiderare la figura di Craxi alla luce del deterioramento della politica della Seconda Repubblica. Craxi, secondo il cantautore romano, restava il “Nerone” della canzone “La ballata dell’Uomo Ragno”, dedicata proprio al leader socialista nel 1992, ma acquistava una nuova luce riabilitante dal raffronto con i politici che ne hanno preso il posto ai vertici dei partiti romani dopo Tangentopoli. Anche nel dibattito culturale scaturito dalla nascita del Partito Democratico, sempre nel 2007, molte voci si sono interrogate sull’opportunità o meno di inserire nel pantheon dei padri del PD il nome di Bettino Craxi, magari a fianco di De Gasperi, Berlinguer e Pertini.


Il problema alla base di queste riflessioni è che la figura di Craxi non è stata risolta dalla storiografia politica contemporanea, imbarazzata nella ricostruzione della figura del leader socialista quasi quanto ha dimostrato di esserlo nei riguardi di un’altra figura chiave degli anni Ottanta, l’imprenditore del mattone e delle televisioni private Silvio Berlusconi. Considerando i pochi studi1 di pregio storiografico che hanno cercato di affrontare quel periodo senza la foglia di fico del “politicamente corretto”, emerge una figura craxiana estremamente diversa nelle tre fasi della sua parabola politica fulminante. Dal 1976 al 1983 è uno stratega straordinario, forse il politico con il “fiuto” più fino della storia repubblicana di questo Paese. Dal 1983 al 1987 è il Presidente del Consiglio, il primo proveniente dal PSI e il secondo non scelto tra le fila della Democrazia Cristiana, estremamente noto per la sua gestione riprovevole dei conti pubblici ma ancora oggi apprezzato per la politica estera messa in campo in quegli anni dal governo italiano. Dal 1987 al 1993 è il leader solo, circondato da yes-man asserviti, incapace di accorgersi della perdita di consenso personale nel Paese, in declino nonostante lo sfarzo e l’opulenza delle kermesse socialiste (affidate più agli scenografi che non alle segreterie dei partiti) e infine disarcionato dalla Giustizia e assediato dai suoi stessi delfini in cerca di una disperata salvezza politica derivante dallo smarcamento rispetto al vecchio leader in declino.

Nel 1976 Craxi è un esponente minore del PSI, anche se da più parti viene identificato come delfino di Pietro Nenni. E’ milanese (di Sesto San Giovanni, per la precisione), è anticomunista, antiamericano, anticlericale e antirusso. E’ quindi un candidato alla segreteria del PSI di rottura rispetto alla corrente di maggioranza di De Martino, campione dei “più avanzati equilibri” che avrebbero dovuto portare il PCI al governo e il PSI a sciogliersi dentro di esso. Le elezioni politiche del 1976 segnano un minimo storico per i socialisti e Craxi conquista il comitato centrale con la promessa del rinnovamento. Un rinnovamento che dal 1976 al 1979 sarà portato avanti sia per quanto concerne gli uomini alla guida del partito (i “grandi vecchi” socialisti, De Martino e Lombardi su tutti, vengono cortesemente invitati a stare in disparte e sostituiti dalla generazione dei quarantenni come Claudio Martelli e Gianni De Michelis) sia per quanto riguarda l’iconografia e il modo di presentarsi davanti agli elettori. La falce e martello si rimpicciolisce nel simbolo, sovrastata dal nuovo garofano rosso della rivoluzione portoghese e Craxi si lancia dalle pagine de L’Espresso in un lungo intervento per spiegare l’abbandono del marxismo per un ritorno alle origini proudhoniane del socialismo: è il nuovo “Vangelo Socialista”, che nei fatti prevederà molta forma e poca sostanza.

In ogni caso gli anni dal 1976 al 1983 sono fondamentali per capire questa voglia improvvisa della sinistra italiana postcomunista di rivalutare Craxi: nel 1976 il PSI è ai suoi minimi storici, privo di una strategia e stretto nella morsa letale del Compromesso Storico di Berlinguer e Aldo Moro che si spartiscono i ruoli di maggioranza e opposizione a prescindere dalla gran parte delle altre forze politiche in campo. Craxi riesce a sfidare il PCI per la supremazia a sinistra recuperando una piccola parte di quei voti “socialdemocratici” che erano stati conquistati da Berlinguer nonostante la sua ferrea intenzione a mantenere il partito nel solco marxista e filo sovietico (pur con tutti i distinguo e le divergenze sancite dal progetto “eurocomunista”) e allo stesso tempo impone alla Democrazia Cristiana (dopo l’uccisione di Aldo Moro) il concetto di “alternanza al governo” tra i partiti della coalizione del Pentapartito. Da un punto di vista strategico è un successo clamoroso, un piccolo partito costruito sulla sua storia nobile e destinato a una prossima fine diventa improvvisamente l’ago della bilancia nei giochi politici nazionali e porta un socialista a salire le scale di Palazzo Chigi per la prima volta nella storia d’Italia. Forse il fattore che porterà Craxi a scendere quelle scale quattro anni dopo sarà proprio l’eccessivo prestigio personale e politico conquistato, un asfissiante personalismo e culto del leader che abbatteranno sia le sue speranze di riuscire a frenare ancora l’ambizione democristiana di tornare alla presidenza del Consiglio, sia le speranze di sopravvivenza del PSI dopo l’ingloriosa uscita di scena di Craxi nel 1993.

Il centrosinistra attuale ha un estremo bisogno di visione strategica, perché si fonda su un partito (il PD) che già di per sé è una scommessa politica precaria (l’unione dei post PCI e dei post DC sembra a volte finalizzata unicamente a sconfiggere le destre berlusconiane e leghiste, senza dare garanzie di poter sopravvivere dopo il raggiungimento di questo obiettivo), e una figura come quella di Craxi viene probabilmente guardata con ammirazione segreta. Oggi riabilitare Craxi è un must della destra, anche perché il PDL ospita molti reduci craxiani che hanno rinunciato alle proprie idee socialiste in cambio di una salvezza politica inattesa dopo il naufragio di Tangentopoli, mentre a sinistra il nome del leader del PSI suscita (giustamente) un senso di irritazione in quei settori che guardano soprattutto alla terza fase della sua storia politica e non accetteranno mai di riabilitare il nome di un “condannato latitante”. Ma davanti a un declino berlusconiano che non si traduce in flussi consistenti di voti per il centrosinistra, quanti leader attuali, nel PD e nel Terzo Polo, vorrebbero avere almeno una piccola percentuale dell’intelligenza politica di Bettino Craxi per compiere un miracolo strategico come quello del partito socialista negli anni Ottanta?


Angelo T.

1 In particolare si vedano S. COLARIZI; M. GERVASONI, La cruna dell’ago – Craxi, il Partito Socialista e la crisi della repubblica, Ed. Laterza, Roma – Bari 2006 e Z. CIUFFOLETTI; M. DEGL’INNOCENTI; G. SABBATTUCCI, Storia del PSI, Ed. Laterza, Roma – Bari, 1993, Vol. 3



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